Alessandro Riva
L'immagine ambigua di Luca Piovaccari
Il lavoro di Luca Piovaccari si gioca da anni all'insegna dell'ambiguità. Ambiguità dello sguardo, ambiguità della visione, ambiguità del linguaggio. E su questa ambiguità - o meglio sul gioco incrociato delle diverse ambiguità prodotte dal continuo scarto di linguaggi differenti, di volta in volta mascherati da altri linguaggi (fotografia che imita la pittura e pittura che imita la fotografia), e di significati e di riferimenti a loro volta nascosti sotto le sembianze di significati e di riferimenti altri, diversi da quelli che ci si aspettava in partenza, il lavoro di Piovaccari è in questi anni cresciuto e si è sviluppato, facendo di questa continua e costante ambiguità e di questo continuo slittamento tra generi e linguaggi diversi la sua forza, il suo specifico e la sua chiave stilistica.
Ma quello che mi ha sempre incuriosito, nel lavoro di Luca, è quel misto di nostalgia e di freddezza, quel voler essere contemporaneamente nel cuore delle cose - della vaga memoria di quello che anch'io riconosco - e chiunque di noi può riconoscere - di volta in volta come il ricordo di un lontano mattino d'ottobre o d'aprile (un aprile in cui la pioggia ha lasciato un sapore forte e pastoso di terra e di ferro e di ruggine, e l'aria è solcata da un vento freddo che promette ancora nubi o tempeste) - un mattino in cui le cose sono già solcate anzitempo dalla nostalgia di se stesse, in cui le case, i viali, gli alberi stessi portano già il sapore agrodolce del ricordo e di quel tempo che oggi è presente, tuttavia conservando già la memoria futura di quello che un giorno sarà - vaga memoria di un giorno qualsiasi perso randomaticamente nel fluire del nostro tempo passato, puro chip di memoria aleggiante nel vuoto dei circuiti del nostro cervello come esatta sensazione di un giorno che è stato - sensazione di cose, di immagini, odori e sapori che come per strane alchimie si fanno terra e giorno e albero e casa; quel voler essere, dunque, nel cuore delle cose e nello stesso tempo all'esterno - fuori da una finestra, su una fredda lastra radiografica in cui le cose, le persone, i ricordi sono raggelati nell'istante del loro stesso manifestarsi e porsi nel mondo: quell' essere dunque dentro il soggetto e fuori dal soggetto - quel saperlo allo stesso tempo raccontare - o meglio accennare attraverso flash, ricordi, frammenti d'un tempo che noi tutti abbiamo vissuto e in cui noi tutti possiamo riconoscerci (basta in fondo volerlo, lasciandosi trasportare dalle suggestioni e dagli odori che il racconto, o il frammento d'un racconto, porta fatalmente con sé) - eppure sapendolo anche analizzare, sezionare, lucidamente disponendone i diversi tasselli su una fredda lastra chirurgica i cui ferri sono asettici - eppure quantomai glamorous - fogli di acetato che ne fermano per sempre le radici emozionali, trasformando, di fatto, il flusso ininterrotto di emozioni che la pittura porta storicamente con sé in un solo, lucido sguardo che è insieme caldo e freddo, partecipato e analitico, emotivo e razionale.
Il segreto del successo di molta della nuova arte italiana cresciuta e maturata dalla metà degli anni Novanta in poi è stato proprio il sapersi mantenere in perfetto equilibrio tra calore e freddezza, tra emotività e raziocinio, tra suggestioni pittoriche e sapienza concettuale. Luca Piovaccari si situa, di fatto, tra gli artisti che meglio hanno saputo mantenere questo equilibrio entro i limiti di un'ispirazione che non si è ancora tramutata in mestiere, dove quindi le concessioni a momenti di maggiore poesia, suggestione - anche di retorica, in certi momenti, poiché la terra dalla quale proviene della retorica è in fondo profondamente imbevuta e di quella retorica, ognuno a suo modo, gli artisti di Romagna non possono, né forse potranno mai, fare a meno -, dove, dicevo, le concessioni ai momenti anche più estremi, più sentiti e genuini, comunque meno chiusi entro i limiti della propria sapienza stilistica sono più frequenti che altrove - ed ecco allora non solo paesaggi che sembrano mantenere ancora intatto il ricordo dei colori, degli odori, delle muffe persino, che li hanno contraddistinti nella loro esistenza per così dire reale, e volti che di quell'esistenza conservano ancora il ricordo d'un sentimento o d'un emozione, ma anche veri e propri effetti speciali: un paesaggio in fiamme, il giallo d'un tramonto, una piuma che cade lentamente al suolo - pezzi di bravura stilistica, sì, ma anche scene costruite ad arte, o riprese a bella posta per colpire lo spettatore, forse per stupirlo, per fargli gridare, come accadeva un tempo, alla meraviglia e allo stupore dello spettacolo che la nostra vita e la nostra natura, malgrado tutto, ancora oggi ci riservano; accorgimenti stilistici, dunque, sotto i quali sentiremmo fin troppo l'artificio se non fosse che sappiamo che l'artificio è messo lì a bella posta per colpire, sì, ma anche per prendersi un po' gioco di noi - per dirci che tutto quello che stiamo vedendo e vivendo non è che illusione, calda, sì, calda e dolce illusione in cui potersi riconoscere e partecipare e vivere nuovamente da capo, benché virtuale e tutt'altro chereale, ma illusione in fondo - e come tale, da vivere, appunto, da riconoscere come propria, più che mai (e ben più che se fosse davvero reale) - e infine, più che se fosse reale, soprattutto da amare.
Alessandro Riva
Milano, aprile 2000
Presentazione in catalogo per la personale alla Galleria Comunale di Cesena Palazzo del Ridotto.