Stefano Castelli
Luca Piovaccari
L’uomo contemporaneo è mancante sotto il profilo dell’esperienza. Il vissuto e la visione sono ologrammatici: non si esperiscono compiutamente le cose e le situazioni, si è spettatori un po’ attoniti, guardoni che spiano da dietro una lente. Tale filtro della visione, che si frappone tra noi e le cose, è uno dei principali enjeu politici d’oggi: il filtro è uno degli ostacoli che rendono maggiormente difficile la definizione di un io individuale e sociale.
La “visione filtrata” è il principale soggetto dell’opera di Luca Piovaccari- e da questa considerazione deriva l’estremamente rilevante attualità del suo lavoro. Il paesaggio urbano e periferico come specchio dell’individuo; uno specchio infranto, che rimanda frammenti apparentemente ricomposti. Eppure pronti a riinfrangersi in mille pezzi se appena dovesse alzarsi un refolo d’aria.
Il mezzo è il messaggio: e se il mezzo è arrugginito -come dimostrano le zone di sovrapposizione che doppiano alcune zone- la produzione di senso sbocca inevitabilmente su una strada aleatoria.
Le foto di Piovaccari simboleggiano e decostruiscono il meccanismo del monitor: il paesaggio non è dato una volta per tutte, ma grazie alle sue “sbavature” –le sovrapposizioni, di nuovo- risulta trasmesso ripetutamente e infinitamente, secondo il meccanismo della trasmissione elettronica delle immagini.
Direttrici spaziali di sapore modernista, non fosse che non esiste alcun nodo focale, e che la superficie prende il sopravvento favorendo l’impressione di bidimensionalità. Immagine svilita (ologrammatica) ma anche portatrice di speranza (messaggio ripetuto e quindi rinnovato di attimo in attimo).
Un postmoderno lieve e non così tanto disperato.