CROMOgraphie
di Sabrina Foschini
Luca Piovaccari usa la fotografia come un disegno, con la morbidezza della grafite spolverata sulla
carta, e quando disegna rammenta la meccanica e l'ottica severa della fotografia.
Le sue immagini monocrome, in un bianco e nero pastoso, come il vapore e la nebbia
della nostra pianura, sembrano lenzuola stese al buio, nel vano della caldaia, tende che si agitano
sui riflessi che i vetri rimandano, dell'uomo che si affaccia a guardare. Sindoni, frammenti, bende
con il segno della piega, come i lini stesi dietro alle Madonne quattrocentesche che conservano la
memoria della piegatura con cui erano stati riposti nella cassa e infine risollevati, a far da paravento
ad uno scenario divino, a coprire l'angolo imbrattato del muro dello studio. Volti che guardano, che
si affacciano sul limite dell'inquadratura, oppure paesaggi catturati e chiusi nei quadri-finestra che
preservano lo sguardo dell'uomo e l'oggetto del guardare… dentro e fuori, interni di casa, nuvole
strade e sempre l'occhio fermo attonito che guarda in macchina, diritto o perso nell'obbiettivo.
Le immagini fotografiche di Luca Piovaccari trasportate e rielaborate su pellicole di acetato,
in un puzzle di fogli sovrapposti sono riflessi nell'acqua, si muovono e stravolgono i contorni
come nello specchio impreciso di un lago. La densità di un corpo trasportato sul campo trasparente
e luminescente della materia plastica, viene svuotata del peso, del colore e della carne. Rimane la
crisalide dell'uomo, l'ombra del paesaggio, il percorso della nuvola sulla pozzanghera. Rimangono
parvenze, movimenti, frammenti, l'agitarsi dei fazzoletti dal finestrino, la visione che sempre
cambia nel passaggio del treno e non ci accompagna mai del tutto. Sono camere ammobiliate,
periferie, l'ombra degli alberi sulle facciate e le nuvole che mescolano in un moto perpetuo il loro
disegno, ma sono soprattutto gli occhi di una bambina (quasi sempre la figlia), che richiamano gli
sguardi dentro la loro traiettoria, dal pensiero misterioso, o nel loro vuoto sognante, nella
sospensione di una domanda che non viene. Sono occhi in movimento, frammenti di sguardo,
appunti di visioni e oggetti del vedere, svolazzanti come i biglietti appuntati sul computer per
memoria, o fermati dalle calamite sullo sportello del frigorifero a rammentare gli appuntamenti
o come le istantanee sbiadite e cincischiate dentro ai portafogli, tra scontrini e indirizzi segnati
a penna, logorate dallo strofinio delle tasche. Condividono con il cinema l'irrequietezza di un
fermo-immagine, quella sospensione del racconto che tornerà a narrare quando i gesti si
rimetteranno in movimento, quando la tensione fremente e innaturale dello stare fermi,
si scioglierà in respiro. Da sempre Luca ha cercato di evadere dal perimetro netto e bidimensionale
§ del quadro, allungandosi sui muri, sconfinando nel pavimento e facendo installazioni che
contenessero scritte, appunti, video, tubi metallici come propaggini alle traiettorie interne delle
opere e la ragnatela di un filo che disegna perimetri di bambini sulla parete. Le sue fotografie,
dai bordi ribelli che si sollevano e straripano fuori dalle cornici, confermano questo desiderio
d'invadere lo spazio, di sfidare i confini, ma con leggerezza e discrezione, con un senso di
provvisorietà, quasi a non disturbare, a non turbare i luoghi, tenendo la voce bassa e sottile,
come a piantare una tenda dove si erigono palazzi, come a fare in modo che tra le sue opere e lo
spettatore rimanga a soffiare il vento, continui a filtrare la luce.
Articolo dalla rivista Graphie 2003.